Il toporagno e la tradizione

Su due poesie di Fabio Pusterla e Federico Hindermann
19 Marzo 2024

 

 

Pressoché planetaria. Per dire queste due parole forse stiamo parlando di qualcosa di molto simile a una impastatrice planetaria marca Kenwood o affini; per esempio: “a dispetto del nome, questa CHeflee Impastatrice Planetaria Multifunzione, Rumore Basso 1800W Robot da Cucina, Capacità 7.2L,6 Velocità, con Gancio per Impastare, Frusta, Coperchio Paraspruzzi, Acciaio inossidabile, Nero [Classe di efficienza energetica A+++] è pressoché una CHeflee 1800W Impastatrice Planetaria Multifunzione Professionale, Capacità 7,2 Litri Ciotola, 6 Velocità, Ad alta potenza Multifunzione Mixer, ma di un altro colore” (se le cercate su Amazon vi sorprenderà la verità contenuta in questo esempio). Oppure di qualcosa che ha a che fare con una scala che coinvolge tutto il nostro pianeta, ed è il caso più probabile, come in questa specifica circostanza in cui l’espressione “pressoché planetaria” viene impiegata da Wikipedia per descrivere la diffusione praticamente globale del toporagno. Per contesto, del gatto Felis silvestris (il gatto Silvestro non si chiama così per omaggiare l’omonimo papa tardo-antico; ora lo sapete anche voi, se lo sapevate anche prima avete la mia stima) catus sempre su Wikipedia, quando viene trattata la sua diffusione, si legge: “È il felino con il più vasto areale nel mondo e con la popolazione più numerosa” Bello, per carità, ma non mi impressiona tanto quanto immaginarmi il toporagno come “pressoché planetario”: che poi non è neanche un topo, il topo-ragno, piuttosto un riccio, almeno stando ai taxa. Nella nostra vita avremmo tutti bisogno di una presenza più incisiva del mustiolo, sunco o pachiuro etrusco (nostrano allora, ma pressoché “mediterraneo”, come del resto molte altre cose nostrane): grande come una cavalletta, adulto in ventidue giorni. Vero totem. Di certo per la poesia italiana contemporanea: se si parla di toporagni non possiamo non pensare a questa poesia di Fabio Pusterla (qui: https://site.unibo.it/atlante-poeti/it/poeti-nord-ovest/fabio-pusterla . Detto fra noi, amo Ossigeno Nascente, ON, al momento un po’ OFF) che, data la sua inclusione in una antologia uscita per Einaudi che si chiama Dopo la lirica e che ha conosciuto un tot di ristampe, suppongo essere una delle sue poesie più lette (a Bologna Unibo è implicitamente nel programma, e per questo fra le prime poesie scritte da autori viventi e italiani che io abbia mai letto):

 

 

I DUE AVVERSARI

 

 

Betulla impietrita dal gelo, catasta nera

di legna gravata di neve e dentro il cielo

come una strozzatura, vento o ghiaccio. C’è un silenzio

totale, dunque, un ciclo

che nessuna pietà può rompere o descrivere, un inverno

cieco, che non ammette primavera?

Freddo che fende i tronchi, apre le vene

dei campi e li uccide e li guarda morire

e li cancella?

 

 

Ma il toporagno, due metri più in là:

cosa fa il toporagno? Saltella,

incide con le sue deboli unghiette la neve,

si ferma brusco e annusa. Cosa annusa?

Poi arriva il sole e va via: chiazze di luce,

gocce di luce ovunque. Particelle

di luce inumidite: il toporagno

si nutre forse di simili sostanze, sopravvive

nell’ombra del suo buco.

 

 

E sono qui ambedue: fibra sventrata

e luce chiara e tersa. Due avversari

che non si parlano mai. Dove guardare, ti chiedi,

di quale occhio fidarsi, a chi concedersi.

Se la nebbia si apre, per un attimo,

se il vento delle altezze alza il sipario in un turbine,

proprio là dove il caso indirizza lo sguardo,

appare, chiaro, un lembo di montagna, ma staccata

da terra, quasi in volo: aquila immensa

di roccia nera e neve, artiglio ed ala.

 

 

Il toporagno di Pusterla, che si ciba di una luce sereniana (compare a chiazze di luce, pericolosamente simile a toppe di inesistenza, calce o cenere / pronte a farsi movimento e luce), contro la betulla. La poesia viene da Pietra sangue, che poi ho comprato per dopo perderlo o prestarlo a qualcuno; non so più dove sia andato a finire. C’è un libro che non ho perso che in realtà è un almanacco, per essere esatti è il quarto Almanacco dello Specchio uscito per Mondadori nel 1975, dove viene pubblicato col titolo “L’idea centrale” un nucleo di poesie che poi verrà disseminato da De Angelis nelle parti centrali di Somiglianze. Subito dopo L’idea centrale però, con una nota firmata da Piero Citati, ci si ritrova a sfogliare una ridotta scelta di poesie di Federico Hindermann; ma chi è Federico Hindermann (1921-2012, https://it.m.wikipedia.org/wiki/Federico_Hindermann )? Sarei ancora meno qualificato per spiegarvelo rispetto a quanto non lo fossi per Pusterla; che invece sarebbe qualificatissimo a inquadrare la figura di Hindermann. Basta considerare il fatto che Pusterla ha firmato l’introduzione all’antologia postuma delle sue poesie, Sempre altrove, uscita nel 2018 per Marcos Y Marcos. Gli hindermannisti esistono: oltre a Pusterla non potremmo non citare Matteo M. Pedroni, che invece è curatore del bel volume. Li ritroviamo insieme, Pusterla e Pedroni, anche in un’opera collettiva che raccoglie una serie di riflessioni sull’opera poetica di Hindermann, con altri e altre studiosi e studiose, per ETS nella collana dei Quaderni della Sezione di Italiano dell'Università di Losanna. Questi due volumi sono irreperibili nelle biblioteche della mia zona, e non ho ancora viaggi in programma per avventurarmi nelle biblioteche del Canton Ticino; dalle mie parti ci sono alcuni testi usciti all’insegna del pesce d’oro, che al massimo arrivano fino agli anni ‘80. Quindi non so se la svolta in arrivo del discorso sia già stata anticipata in questi saggi, o dall’introduzione di Pusterla all’antologia; io per le mani ho soltanto le nove poesie pubblicate nel ‘75. E in queste il toporagno fa di nuovo capolino, o meglio: aveva già fatto capolino, dato che siamo editorialmente 24 anni prima dei due avversari di Pietra sangue:

 

 

L’ANIMA CHE QUADRATA

 

 

L’anima che quadrata

tra sgorbi di bottoni e l’ombelico

ferma configuravo tra i pupazzi,

non più l’indovino, non così da tanto,

ma solo incerta vagante quale profumo d’attimo:

impellicciata

nel balzo del gatto,

fiato di luce nell’arcobaleno che tende

levandosi il colibrì.

 

 

Dicono che strani medici

pesino degli umani nel trapasso

un calo di ventisette grammi.

Nella scia ne spande

due l’uccello trasvolando il mare

da un’America all’altra, quando se stesso cede

all’immenso stremato come non sue ormai

fossero più le palpebre delle ali

che sbattono nell’occhio del ciclone.

Se gioia o se terrore non è chiesto.

Nel limite si ingloba la ragione.

Dal limite si irradia e circonfonde

chi vede e chi è visto tutt’in uno

sguardo che uguale brilla

nel toporagno e in Beaux-yeux tigrata

che me lo porta in dono ancora vivo.

Forse le fusa e lo stridìo non sono

che voci di un’unica bontà.

 

Eccocelo qui il toporagno; impossibile ovviamente pretendere la proprietà intellettuale della parola “toporagno”; però la memoria. Scaffai del resto in questa poesia di Hindermann (e in altre) ha individuato una memoria montaliana: L’anima che quadrata / tra sgorbi di bottoni e l’ombelico vs L’anima che dispensa / furlana e rigodone ad ogni nuova / stagione. Ma a prescindere dalla memoria: che cosa ci fanno F. Pusterla e F. Hindermann con il toporagno? Hindermann lo mette in bocca alla gatta; Pusterla invece gli mette in bocca la luce, lo usa per realizzare lo scontro tra fibra sventrata / e luce chiara e tersa. Nel primo caso è un minuscolo nucleo di dolore (lo stridìo) contrapposto alle fusa della gatta; altri due avversari allora nella poesia di Hindermann. Ritorna anche lo sguardo, ma incrociato: in  L'anima che quadrata toporagno e gatta guardano l’occhio dell’autore, che non ha dubbi su dove andare a fissare lo sguardo e va a rispondere a quello dei due animali, mentre in I due avversari lo sguardo è indeciso, non si sa più di che occhio (fra i due propri, che guardano in direzioni diverse) fidarsi, si finisce in una sorta di strabismo della scelta: Dove guardare, ti chiedi, / di quale occhio fidarsi, a chi concedersi vs “Dal limite si irradia e circonfonde / chi vede e chi è visto tutt’in uno / sguardo che uguale brilla / nel toporagno e in Beaux-yeux tigrata. Inoltre, in Hindermann c’è qualcosa che nel toporagno brilla; per Pusterla, invece, il toporagno è alla ricerca di luce che gli manca, vivendo, nella tana, nell’ombra. Un filo conduttore c’è, oltre al comune background italo-svizzero dei due autori, lo abbiamo visto.L'anima che quadrata è una poesia che alla fine punta all’unificazione, c’è la stessa bontà nel lamento e nella carezza, in predatore e preda. Ma I due avversari scommette tutto sull’inconciliabilità di luce e fibra, o meglio; è possibile conciliarle in quanto prede di uno stesso predatore, maggiore: l’aquila-montagna che chiude la poesia. Da un lato non c’è neanche quasi bisogno di spiegare che l’aquila preda il toporagno (artiglio ed ala); dall’altro abbiamo la montagna enorme, rocciosa e inamovibile che figurativamente preda la betulla striminzita fatta di legno, mica roccia durissima, e morente (roccia nera e neve; anche la betulla era nera, e impietrita; ma per finta, qui si fa invece sul serio) Abbozzo di parafrasi: due avversari ne scoprono un terzo, fine. Quasi come se questa poesia dicesse: penso di avere due opzioni: o muoio come la betulla distrutta dal gelo, o sopravvivo come il minuscolo toporagno nella neve che si ciba di pochissimo ma comunque di luce; e invece quando alzo lo sguardo e mi si prospetta una possibilità inquietante e violenta che prevarica talmente tanto le altre due da rientrare in un’altra categoria. La poesia funziona anche perché chi legge qui si coglie con la guardia abbassata: io sono più come l’aquila-montagna o come chi vede l’aquila-montagna? E che cosa devo provare? Sollievo perché c’è una via di uscita dal confronto fra i due avversari? Terrore perché si va di male in peggio? Qui c’è la bella ambiguità che non si scioglie in due secondi e che rende memorabile la poesia. Ma ci serviva Hindermann per arrivare a questo punto? In realtà il toporagno è uno specchietto delle allodole: un rimando che, secondo me, non è proprio casuale, e intanto riesce a farci collegare le due poesie. In realtà abbiamo assistito a uno scontro segreto della tradizione, non tanto fra un toporagno e un altro, ma piuttosto fra i due “campioni” di queste poesie: i due “veri” avversari. Il campione di Pusterla, per rispondere al problema di come si fa a vivere o a morire, è l’aquila che sovrasta tutto e si manifesta come visione rispetto alla montagna in mezzo ai venti, nel turbine, letale senza spostarsi. Anche Hindermann parla di venti in L'anima che quadrata, anzi: di ciclone. E nel punto di massima calma apparente, nell’occhio del ciclone, ci mette un altro uccello: il colibrì. Vero avversario per l’aquila di Pusterla, il colibrì di Hindermann non è inamovibile, ma migra: non è avvolto dai venti ma ci viaggia in mezzo, e soprattutto, qui è il punto, è lui stesso un occhio (le palpebre delle ali) che va cercare l’immenso e ci si butta dentro. Con che esito, non si specifica. I due avversari: diventare un occhio che cerca oppure una cosa da essere guardata immobile e basta. A distanza di 24 anni l’uno dall’altro li facciamo reagire, fissandoli con un nodo e dicendo: ecco che qui c’è stato uno scambio fra due poesie che se lette insieme finiscono per sviluppare un discorso in comune sul destino (in che direzione va la vita?). Concludo riportando per intero un’altra delle nove poesie di Hindermann dal quarto Almanacco dello Specchio, quella che segue L'anima che quadrata: la prima strofa è un po’ così così, salvo gli ultimi versi, e se avessi potuto avere modo di parlarne con Hindermann gli avrei probabilmente chiesto come mai abbia preferito non rimuoverla, dal momento che la seconda strofa sarebbe stata molto più impattante da sola, senza nessuna introduzione, magari. E ora che ci penso si potrebbe dire la stessa cosa anche di L'anima che quadrata, sicuramente a torto: è che in entrambi i casi io mi sembra di avere a che fare con la scrittura di qualcuno che è arrivato a trattare molto bene cose veramente potenti ma che si è anche un po’ smorzato da solo andando dietro alla necessità di avere una risoluzione abbastanza “pacifica”. Penso che si capirà meglio quello che intendo leggendo questa seconda poesia, che comunque sono contento di poter mettere online per quella che probabilmente è la prima volta. Anche in questo caso attenzione agli occhi e agli sguardi:

 

 

A CHI S’AFFIDA

 

 

A chi s’affida lungo le stagioni

il cenno lieve d’una foglia all’altra,

a chi del viso lo sguardo

che ne trabocca?

Non lo contiene il profilo

che s’avvicina e passa, e pure inerte

sbalza dalla moneta fuori del segno inciso,

fossilizzato nella felce scuote

la nervatura, prorompendo butta,

s’accresce esorbitante di se stesso

e solo allora esiste.

 

 

In ogni pietra l’eccesso

di pietra. Viva

la senti perché mai conclusa

come un dio erutta

l’immagine di sé all’infinito;

da ogni spacco del vulcano abbaglia

l’occhio del drago, fin nella sabbia ammicca

in cui lo traggo e a manciate tento

di soffocarne il mercurio.

Pullula, sempre sconfina

di pace in pace generando guerra,

ma né dolcezza né rabbia

nelle fiammelle leggo, nessuna foglia è mia

e tutto trema e tace

e che ci sia

è tutto.